LA SCELTA DI SANTIAGO, LA STANZA E IL CAMBIO DI DIREZIONE
Cambiare radicalmente direzione, nell’ambito di una carriera artistica, non è mai la strada più semplice (anche perché molti fan sicuramente rimarranno delusi). Ma qualche volta bisogna avere il coraggio di rischiare: ne abbiamo parlato con Santiago, che ha abbandonato il suo percorso rap per presentarsi in una veste inedita, molto diversa rispetto al passato, a partire da La stanza, il suo nuovo singolo.
Io vengo da 10 anni di rap, ho cominciato facendo rap perché era il metodo più facile per poter iniziare a fare musica. Ma dopo anni è venuta la mia esigenza di comunicare le cose in maniera differente. Per questo mi sono spinto a fare quello che avrei sempre voluto fare, ho sempre ascoltato gente come Battiato, De Andrè, Branduardi, volevo avvicinarmi a quei mostri sacri lì. Il rap mi ha dato la consapevolezza dei miei mezzi, di poterci provare. Una volta che la rabbia che mi ha portato a scrivere così negli anni si è affievolita, a 32 anni voglio far capire alla gente come sono diventato oggi. Non sono più così incazzato, sono più tranquillo, ho voglia di raccontare le cose in una determinata maniera.
Accennavi alla rabbia: ma le tematiche di cui parli oggi sono le stesse di allora o son cambiate anche quelle?
Diciamo che sono le stesse ma sono affrontate in maniera diversa. E’ proprio diverso l’approccio: perdendo la rabbia si perde quella foga di dire le cose in un determinato modo. Quando ho deciso di fare questo cambiamento il mio obiettivo più grande è stato riuscire a portare nei pezzi pop quasi gli stessi contenuti che portavo nei pezzi rap. Poi mi sono reso conto che a livello tecnico è una cosa molto difficile perché dovendo utilizzare la metà della metà delle parole è difficile esprimere un concetto. Ma la cosa figa è che quando ci riesci, quando riesci a trovare le parole giuste sulla giusta melodia, la sensazione che dà a me è molto più potente di quella che mi dava una strofa scritta bene. Sono da questi piccoli segnali che mi sono accorto che dovevo cambiare qualcosa nel mio percorso.
Quello tra rap e pop è proprio uno scontro di metrica, a livello di testo, no?
Esatto, nel rap puoi dire quello che vuoi come vuoi, e forse è proprio questa la bellezza del genere. Ma con il pop è diverso, io mi son dovuto fermare due anni e capire cosa realmente volesse dire scrivere un testo pop. Ho iniziato scrivendo per altri, che è una cosa che a me dà comunque soddisfazione: sentir cantare da altre persone le cose che hai scritto tu, sentirle fare loro in quella maniera, è una bellissima sensazione. Ho cominciato così e mi sono detto: “Se posso farlo per gli altri posso farlo anche per me”. La stanza è stato proprio il primo pezzo che ho scritto per me, e non ha caso è il singolo con cui mi sono presentato.
E’ sempre un po’ pericoloso cambiare genere così radicalmente per un artista, come l’hanno presa i tuoi fan?
La gente che mi seguiva si è un po’ divisa: alcuni mi hanno scritto anche privatamente delle cose irripetibili, come se avessi fatto loro qualcosa di personale, mentre altri hanno deciso di seguire il mio percorso a prescindere dalla musica. Ci sono alcuni che si sono affezionati al mio modo di comunicare le cose e mettono in primo piano quello, perché sullo sfondo c’ero sempre io. Per me è il massimo essere riuscito ad unire tutti i punti.
Nel tuo percorso poi hai incontrato Andrea Bonomo, cosa ti ha dato questa collaborazione?
L’ho conosciuto tramite il mio manager, e anche quello è stato un punto di svolta. Andrea mi ha insegnato in questi due anni, e mi sta insegnando ancora, moltissimo. Ci sentiamo tutti i giorni e ci confrontiamo su quello che scriviamo, molte cose le scriviamo insieme, per me oggi è una figura importantissima. E’ stato lui a insegnarmi come si fa, mi ha dato delle dritte importanti che mi hanno portato ad avere molti meno problemi di quanti ne avrei avuti, facendo questo grosso cambiamento.
Il fatto che tu abbia studiato come tecnico del suono ti ha aiutato nella scrittura dei pezzi?
Ho studiato come tecnico del suono perché volevo farmi la mia musica, in maniera professionale: io sono fatto così, una cosa o la faccio bene oppure è inutile farla, la penso così. Quando ho iniziato a fare musica mi sono detto “voglio studiare”, per essere autosufficiente. Dopo gli studi ho potuto registrare il mio demo, da solo, e anche il primo disco (che mi ha permesso di conoscere Big Fish, che poi mi ha fatto pubblicare l’album con la sua etichetta).
E’ stato comunque un bel passaggio, da una situazione indipendente e piccola a un’etichetta come la Universal.
Sì, era quello a cui ambivo. Ho lottato tanto per arrivare a questo livello, per far sì che la mia musica venga ascoltata da più persone. E’ quello che a me fondamentalmente interessa, arrivare a più gente possibile. Da solo non potrei assolutamente: ci ho provato negli anni, però è veramente difficile, dispendioso, ci rimetti proprio pezzi di anima. Sono felicissimo di poter lavorare così.
Ci hai messo comunque il tempo giusto: hai 32 anni, ti sei fatto un sacco di gavetta.
Non solo nella musica: in tutte le cose della mia vita ci arrivo con un attimo di ritardo. Però ci arrivo, e questo mi fa capire che anche sbagliando alcune cose durante il percorso riesco sempre a trovare quella forza per dire “andiamo avanti e vediamo che succede”. Senza abbattersi mai, perché la cosa più importante per chi fa questo lavoro è non abbattersi, io ho capito questo. Perché quando ti lasci prendere dallo sconforto, ti senti non in grado…momenti di sconforto ce ne sono tantissimi. La cosa importante, veramente, è tenere duro.