COM’E’ STATO IL CONCERTO DEI GREEN DAY A MONZA INSIEME AI RANCID
ps. Non troverete traccia della scaletta, solo un racconto punk-emozionale. Se cercate quella andate su setlist.fm.
Non sarei mancata per niente al mondo al ritorno dei Rancid in Italia. L’ultima volta che li ho visti era il 2003, ero andata a Bologna per il festival che li vedeva come headliner e i miei ricordi sono un po’ confusi, dal tempo, da quella nebbia di sabbia che si alzava puntualmente tutte le volte durante i concerti all’Arena Parco Nord (ora Parco Joe Strummer) e che ti intasava i polmoni, nel bel mezzo di un unico energico scambio di sudore tra corpi appiccicosi e viscidi al centro del pogo.
Mi ricordo molto bene che Tim non era in forma e che il concerto alla fine non era stato poi granché, ma alla fine erano i Rancid, e ai Rancid si perdona tutto. Perché sono stati loro la colonna sonora di tutte le tue serate, quando facevi ogni sabato sera decine di chilometri in auto per riuscire a trovare altra gente come te, altri freaks, che avevano tutti trovato casa in un piccolo capannone della bergamasca (che poi, dovevi azzeccare subito la traversa per riuscire ad entrare nel parcheggio perché era sempre buio pesto).
L’atteso concerto dei Rancid, dicevamo, ma anche dei Green Day, che a ben vedere – anche se così potrebbe sembrare sul cartellone – non sono affatto ‘supporter’ e ‘headliner’. Sono questo per chi questo genere non lo merita, per chi pensa che Billie Joe è così carino e manco si è preso la briga di imparare le canzoni di Nimrod o degli album precedenti come già dicevo dopo il concerto di Torino a gennaio.
Rancid e Green Day il 15 giugno erano esattamente sullo stesso livello: stessa attitudine, stessi principi, stesse convinzioni.
No, chissenefrega di chi ha venduto di più. Non ci interessa, non ci deve interessare, non è questo che conta. E non è questo il punto.
(Tim) Armstrong vs (Billie Joe) Armstrong, due volti chiave del punk tornato prepotentemente alla ribalta (o meglio, tornato mainstream perché dal sottobosco non era mai sparito) negli anni Novanta. In quegli anni Berkeley, California, ha mostrato il suo lato più emarginato, ha scovato i perfetti portavoce delle storie dei suoi weirdos, quelli che vengono considerati strani dagli altri, che hanno trovato un canale per farsi sentire, la musica punk, tra storie di vita vissuta e difficoltà nel trovare il proprio posto nel mondo, portanto avanti le istanze di chi deve subire quotidianamente discriminazioni (come razzismo, omofobia e sessimo, duramente attaccati da Billie Joe sul palco dell’Autodromo-Parco di Monza).
Gli appelli alla bellezza della vita, alla necessità di vivere il momento anziché fare un cazzo di filmato con il cellulare che io ve le taglierei quelle mani alzate, alla rivoluzione vera da attuare grazie al rock’n’roll, tutto è stato spesso soffocato dall’isteria adolescenziale e idolatrante nei confronti dei Green Day, ma sono arrivati dritti al cuore di chi, sotto al palco, un po’ weirdo si sente ancora oggi, e molte volte ha ancora la sensazione di camminare da solo, lungo la strada dei sogni infranti.
E questa non è nè una realtà divertente nè tantomeno facile: non c’entra niente colorarsi i capelli, che oggi come oggi fa anche originale – dove originale is the new pazza e solare -, è un modo di essere con cui si fa a botte ogni santo giorno, uscendone spesso knocked out, beat down, black and blue.
Ed è qui che si inserisce una canzone come Fall Back Down dei Rancid, oltre ovviamente agli altri capolavori da ...And Out Come The Wolves e Let’s Go, e tutte le altre che hanno fatto.
Dopo che i nemici sono usciti dalla mia vista sono pronto a rialzarmi grazie all’aiuto dei miei amici. Del resto ci vogliono disastri per imparare la lezione, bisogna arrivare alla fine del buio per riuscire a rimettersi in piedi nella luce.
Va tutto bene, sembrano dirci queste due band, sappiamo quello che si prova: sei come noi, siamo uguali, e ti arriva forte e chiara quella consapevolezza di non essere tu il solo a pensare, a ragionare, a vivere diversamente.
Sia Rancid che Green Day hanno voluto abbracciarci tutti, abbattendo quel muro – il palco – che ci separava (Tim scendendo direttamente tra il pubblico e Billie Joe facendo suonare e cantare alcuni fan scelti a caso nella mischia).
L’altro giorno a Monza la band di Tim e Lars ci ha regalato proprio lo spettacolo che ci aspettavamo da loro da 15 anni, e anche di più: se hai sempre condiviso il loro stesso universo, e lo porti avanti tutti i giorni della tua vita nonostante le difficoltà sei sicuramente tornato a casa con qualcosa in più.
Stesso discorso per i Green Day. E’tutta una questione di percezione, perché magari inconsciamente è ancora un po’ come quando si usciva, che non potevi dire di ascoltare i Green Day perché se no venivi considerato meno punk dai tuoi simili (che paradosso: andavi a cercare quelli che pensavi fossero come te e invece anche tra loro trovavi dettami e regole), ma l’essenza di tutto quello a cui abbiamo assistito (anche se è diventato un passaggio obbligato e definito nella setlist, e se vogliamo un po’ meno spontaneo) è racchiusa nel delirio che si scatena su King For a Day in cui Billie Joe completa finalmente la sua trasformazione nel tanto evocato John Belushi.
King For a Day è la festa dei folli, in cui tutte le norme sono sovvertite e anche il più emarginato può sentirsi accettato per quello che è. E allora sì che può cantare orgoglioso di far parte della Minority (altro pezzo ingiustamente un po’ snobbato dal pubblico rispetto a – che so – Jesus Of Suburbia).
Bisogna sempre essere orgogliosi di far parte della minoranza. Bisogna essere orgogliosi quando si pensa e si agisce sempre con la propria testa, in ogni campo, perché si prendono le decisioni senza lasciarsi influenzare.
Marciando fuori tempo, andando fuori dal coro: la minority è una sedia traballante su cui scegli di stare seduto per tutta la vita, che ti fa cadere spesso e oltre a non darti stabilità quando è particolarmente ispirata ti piglia anche a cazzotti.
Ma almeno, vuoi mettere, ogni tanto qualche soddisfazione te la lascia, anzi, te ne lascia una in particolare: fuck’em all! Quella lì non può proprio togliertela nessuno, ed è proprio quella la tua forza.