DUE COSE SU EMIS KILLA E “3 MESSAGGI IN SEGRETERIA”
UPDATE 25 gennaio 2017: Forse a mo’ di scuse (anche se, come ho già detto, non erano necessarie perché non ha sbagliato) Emis Killa ha appena annunciato che durante il suo tour porterà con sé sul palco una band tutta al femminile: Silvia Ottanà al basso, Fiamma Cardani alla batteria e Beatrice Antolini alle tastiere.
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Cosa ne pensate di questa canzone? Parto così, abbomba.
Si tratta di 3 messaggi in segreteria, un brano del rapper Emis Killa (contenuto nel suo ultimo disco appena uscito, Terza Stagione) in cui la persona che parla si rivolge alla persona ‘amata’, usando le virgolette non a caso, dando a intendere di ‘non rassegnarsi alla fine della storia’, usando ancora le virgolette, ancora non a caso.
Il testo è scritto usando la prima persona singolare – qui lo potete leggere integralmente – e ha scatenato un vespaio di polemiche.
Un testo molto duro, estremamente crudo, certo, è uno stalker che parla in questo momento, è lui il ‘cattivo’ di questa vicenda, l’incarnazione della persona da denunciare perchè “questo non è amore”. Ogni 25 novembre, ogni anno, ci battiamo il petto fino a farci venire noi i lividi, gli stessi che insieme agli occhi pesti campeggiano nel kit base per parlare di femminicidio, insieme ai “no”, “mai più” e compagnia cantante.
Che, a quanto pare, non servono a niente perchè se è vero che di femminicidio ormai si parla da tanto tempo, da quando da qualche anno si usa un termine specifico e intoccabile, anche se molt* sostengono che “un omicidio è un omicidio” e che quindi non ci sia bisogno di un termine ad hoc per definire questo crimine odioso ovvero l’omicidio di una donna che non incarna più determinate regole di comportamento stereotipate riassumibili anche in “in quanto donna”* , da gennaio a ottobre solo di quest’anno le donne uccise sono novanta.
Il ruolo della cultura (arte, musica, letteratura, ma inserisco anche i media, che la cronaca la raccontano) in questo fiume di sangue quotidiano è cruciale per riuscire a scardinare con il tempo, e ce ne vorrà tantissimo, quei meccanismi che instillano gli stereotipi di genere che danno vita ad alcuni, semplifico, schemi mentali che sono causa fondante della violenza.
Ma torniamo al brano in questione. Queste sono le parole del Centro Antiviolenza “Roberta Lanzino” di Cosenza, seguito a ruota da numerose realtà femministe come l’importante Di.Re.- Donne in rete contro la violenza (e anche da un gruppo di attivist* che è andato di persona a contestare il rapper durante la presentazione del disco a Milano):
Al di là di un interrogativo banale (ci sono autorità preposte al ritiro di brani? Mah, vabbè, andiamo avanti) ragazze, fermatevi un attimo.
A chi invoca la censura, la richiesta si commenta da sè.
A chi dice che la musica ok, è musica, “ma potrebbe esserci qualche squilibrato che…”: scusate se banalizzo, ma non è che uno nella vita ascolta solo Emis Killa e fonda i principi della sua esistenza sulle canzoni di Emis Killa, di femminicidio si parla pure altrove e qualcosa di diverso si spera che arrivi da altre fonti graziaddio. A tutto questo comunque va aggiunto che il diretto interessato, in occasione dell’uscita del disco, aveva già dichiarato il suo intento a chiare lettere, ma la rassegna stampa evidentemente si è persa per strada. E questo è quello che scrive oggi:
Una cosa è certa: se ci siamo incazzat* per la canzone di Emis Killa significa che Emis Killa ha colto nel segno(e meglio Emis Killa di Alessandra Amoroso che ha parlato così di femminicidio durante un suo concerto: “Siamo in una società in cui va di moda uccidere le donne. Questa cosa non deve più succedere. Viva l’amore”. Viva l’amore, vabbè).
Di sicuro non basta una canzone per parlare a 360 gradi di femminicidio e per cambiare il substrato culturale del nostro Paese.
Ma di sicuro non è stata una canzone ad armare le 90 (ad oggi) mani assassine. Non sono state le canzoni, così come non l’hanno fatto libri o film.
Anni di Bowling a Columbine, di Marilyn Manson tirato ingiustamente in mezzo ai peggio atti umani, di dibattiti, discussioni, ancora prima per Arancia Meccanica di Burgess prima e Kubrick poi, e siamo sempre inesorabilmente punto e a capo. Ancora assegniamo una qualunque colpa esterna al male, come possiamo pretendere un cambiamento se anche noi riproponiamo gli stessi meccanismi di continuo?
Quelle donne che rappresentiamo, che raccontiamo ogni anno, vive, o come ha fatto Serena Dandini nel suo libro e spettacolo teatrale, morte, non si sono sparate, o accoltellate, o spaccate il naso da sole: quei lividi glieli ha fatti qualcuno, una persona, non un’entità astratta, qualcuno con opere ben evidenti, ma anche con pensieri e parole. Parole che quando vengono scritte, o cantate, o lette, ci fanno venire i brividi.
Certo che ci shocka sentirli parlare in prima persona (anche grazie ad un espediente chiamato storytelling, questo sconosciuto): gli uomini violenti, che sembrano “tanto brave persone”, tanto “normali”, usano un linguaggio atroce, che appartiene loro nella loro logica viziata, e che certe volte – sì, lo facciamo – ‘perdoniamo’, e persino ‘accettiamo’ e ‘tolleriamo’. Raccontiamole le loro storie, i loro pensieri, cerchiamo di capire cosa si è rotto e perchè succede, così magari è possibile intervenire su più livelli.
E, ancora una volta, sta a noi, soltanto a noi lavorare per seminare idee nuove con ogni mezzo possibile, anche con un linguaggio forte se necessario, per scardinare e buttare via le vecchie gabbie, prestando sempre attenzione e non lasciando correre mai le tante manifestazioni di sessismo (vere e pericolose) a cui ci tocca assistere quotidianamente. Ma che, inspiegabilmente, ci sembrano meno gravi dei versi di un cantante rap.
*Quello, per capirci, che sui media, nonostante siano in atto campagne di sensibilizzazione e tentativi di autoregolamentazione, viene raccontato come, esempi sparsi, raptus, gelosia, lei lo vessava, non accettava la fine della storia, aveva perso il lavoro (e quindi ha ucciso la moglie. Questa, spiegatemela) e simili.